Archivio mensile:Marzo 2017

Aversa salva gli alberi «Non serve abbatterli»

«Possiamo sistemare i marciapiedi utilizzando un nuovo materiale gommoso»

marciapiede_gomma

Stamani il commissario effettuerà un sopralluogo in via Previtali

Sistemare i marciapiedi di via Previtali senza abbattere gli alberi. Il commissario straordinario del Comune, Pasquale Aversa, ha la sua ricetta per evitare di provvedere al taglio previsto dei pini marittimi collocati lungo la via. Oggi il commissario straordinario sarà a fare un sopralluogo decisivo in via Previtali, accompagnato dal capo dell’ufficio Tecnico Luigino Gennaro e da altri esperti. Aversa, che ha messo in piedi un maxi bando da 1,2 milioni di euro per la gestione del verde pubblico fino alla fine del 2018, vuole confermarsi dal “pollice verde” e quindi è pronto a gettare il progetto previsto invece dall’ex amministrazione Claudio, che prevedeva l’esborso di 500 mila euro per l’abbattimento dei pini marittimi e il rifacimento dei marciapiedi. Il commissario preferisce però seguire le linee ambientaliste. «Oggi sarò in via Previtali per decidere che tipo di interventi effettuare ai marciapiedi», spiega Aversa. «I tecnici comunali mi hanno illustrato un modo innovativo per sistemare i marciapiedi senza provvedere al taglio degli alberi. Oggi sono a fare un sopralluogo lungo la via per capire se le misure sono praticabili». Aversa spiega: «Il marciapiede andrebbe sistemato con un materiale del tutto nuovo, quasi gommoso. Utilizzando questo materiale quando le radici crescono non rompono il sedime stradale, bensì spingono, creando al massimo qualche ondulazione». Gli incaricati mi faranno vedere delle simulazioni e poi prenderò la decisione definitiva. L’obiettivo è salvare gli alberi e sistemare i marciapiedi per garantire l’incolumità di cittadini e turisti». Per la felicità delle associazioni ambientaliste, più volte scese in strada a difesa dei pini marittimi.

main-logo
30 marzo 2017(Federico Franchin)

Alberghi dismessi, ci pensa Piano

«Verrà ad Abano per valutare anche il recupero della Primo Roc»

renzo-piano

(Federico Franchin)
La mano di Renzo Piano per la riconversione delle strutture alberghiere dismesse e della caserma Primo Roc di Abano. È ambizioso il progetto proposto dal candidato sindaco Federico Barbierato. Renzo Piano, 80 anni il prossimo 14 settembre, è architetto e senatore a vita.
A coinvolgerlo sarà appunto Barbierato, che con l’ateneo patavino ha già raggiunto un accordo di collaborazione, che porterà la città di Abano. In caso di elezione svilupperà importanti progetti tramite il Dicea (Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientalista) di Padova. Dipartimento che schiera tra i suoi pezzi da novanta Edoardo Narne, professore e ricercatore universitario. Spetterà a lui portare avanti da vicino il progetto sotto l’occhio di Piano. «C’è bisogno di portare avanti progetti seri e sviluppabili», spiega Barbierato. «Per la prima volta il Bo sbarcherà ad Abano per portare avanti un piano di sviluppo di qualità. Con l’Università di Padova coinvolgeremo un architetto di fama mondiale come Piano».
Il candidato sindaco, alla testa di una civica che porta il suo nome, appoggiata da Pd e Cittadini per il Cambiamento, spiega come Renzo Piano sarà coinvolto nella sviluppo di Abano.
«Gli studi saranno portati avanti da Narne, che lavora anche per Ascom e che collabora con Piano», annota Barbierato. «Il senatore a vita valuterà da vicino i progetti portati avanti da Narne e darà il suo definitivo nullaosta ad eventuali piani di sviluppo, dando i suoi preziosi consigli. È molto probabile che Piano venga ad Abano per vedere e valutare da vicino le strutture dismesse e la caserma Primo Roc».
Federico Barbierato sa che questa potrebbe essere per Abano l’ultima chiamata. «Ogni hotel dismesso dovrà essere analizzato singolarmente. Su ogni struttura dovrà essere sviluppato un piano di sviluppo personalizzato, che potrà essere mantenere la vocazione alberghiera o riconvertirlo. Quanto invece alla caserma Primo Roc di Giarre, non potrà mai diventare un campus universitario: è la stessa Università a dirlo. Al Primo Roc ci saranno la Cittadella della Sicurezza e uno spazio ricreativo per giovani e anziani».

main-logo
26 marzo 2017

«Abano deve resistere al ricorso sui vigili»

«Abano deve resistere al ricorso sui vigili» Barbierato con Aversa

Il candidato sindaco del centrosinistra appoggia la decisione di far valere anche al Tar i motivi dell’uscita dal Distretto Pd4

comando_vigili_gk(Federico Franchin)
«Fa bene il Comune a resistere nel ricorso al Tar presentato dagli altri centri del Distretto di polizia Pd4A. Abano ha bisogno di agenti nel proprio territorio e di intensificare il progetto degli sceriffi di quartiere». Federico Barbierato, candidato sindaco per una civica che fa riferimento al suo nome (appoggiata anche da Pd e Cittadini per il Cambiamento), si schiera dalla parte del commissario straordinario Pasquale Aversa, che a fine 2016 aveva deciso di uscire dal Distretto dei Colli lasciandolo nelle mani degli altri 4 aderenti. Tre di questi non l’hanno presa bene (Teolo, Torreglia e Galzignano, Battaglia esclusa), tanto da aver portato avanti un ricorso al Tar con richiesta di risarcimento danni. Il Comune di Abano si è ora affidato al legale Mario Bertolissi del Foro di Padova per la difesa di fronte al Tribunale amministrativo del Veneto. «Le motivazioni del commissario erano chiare e assolutamente condivisibili», fa notare Federico Barbierato. «Aversa ha messo bene in evidenza come il Comune di Abano, con il distretto, avesse solo oneri e pochi onori. Avere 17 vigili da condividere con gli altri Comuni a discapito del territorio aponense non era certamente la linea da seguire per garantire la sicurezza ai nostri cittadini. Bene ha fatto Aversa a uscire dal distretto e a tenere i vigili ad Abano, dando vita al progetto dei vigili di quartiere». Progetto che Barbierato ha già in mente di potenziare. «È la linea giusta da seguire. Dobbiamo intensificare il controllo nei quartieri e la presenza degli agenti per strada. La gente vuole vedere i vigili passare perché si sente sicura. Non possiamo che condividere questo concetto con i nostri cittadini». Resta ora da trovare una collocazione dignitosa alla Polizia locale e ai carabinieri, relegati in una struttura fatiscente e ormai inadeguata in viale delle Terme. «Dobbiamo portare avanti il progetto della Cittadella della sicurezza al Primo Roc», dice Federico Barbierato. «Come soluzione tampone dobbiamo trovare un’altra collocazione per i carabinieri, che non possono più stare dove sono, e per i vigili. Per loro un’ipotesi sul tavolo è quella dell’utilizzo della ex Casa delle Maestre, vicino al Crc, dove tra l’altro la Municipale di Abano ha anche il parcheggio sotterraneo dei mezzi».main-logo
20 marzo 2017

Giornata in ricordo delle vittime delle mafie Intervista a don Ciotti

Don Ciotti, il 21 marzo Libera celebra la Giornata in ricordo delle vittime delle mafie in 4.000 luoghi italiani. La piazza principale è Locri, perché questa scelta?

Per valorizzare il positivo della Calabria. Che c’è ed è tanto, nonostante le presenza del crimine organizzato. C’è una Calabria che non accetta di essere identificata con la ‘ndrangheta, con la massoneria, con la corruzione. Una Calabria fatta di persone oneste, operose, accoglienti, impegnate a costruire speranza e cambiamento in realtà laiche e di Chiesa. Libera è lì per loro, e non occasionalmente. Il legame con molte realtà è di lunga data, come dimostra anche il fatto che per ben tre volte la “Giornata della memoria e dell’impegno” si è svolta in Calabria: a Reggio nel 1998, a Polistena nel 2007 e quest’anno a Locri.

Ogni 21 marzo dal 1996 vengono letti i nomi delle vittime di mafia. Sono quasi mille nomi, di cui nel 70 per cento dei casi ancora non si conosce l’assassino. Chi c’è in piazza ad ascoltare?

C’è un’Italia che si ribella all’indifferenza, al conformismo, alla corruzione che devasta i beni comuni e l’ambiente. Un’Italia consapevole che la convivenza civile e pacifica si fonda sulla giustizia sociale, sulla dignità e la libertà di ogni persona. In questo senso il richiamo alla memoria non è mai stato per Libera un esercizio retorico. Quelle persone non sono morte per una targa, una corona di fiori, un discorso celebrativo. Sono morte per la nostra libertà, per la nostra democrazia, ossia per ideali che abbiamo il compito di realizzare. Solo l’impegno personale e collettivo trasforma la memoria d’occasione, inamidata, in memoria condivisa e pubblica, in memoria viva.

“Luoghi di speranza, testimoni di bellezza”: cosa vuol dire lo slogan che accompagna la giornata delle vittime di mafia di quest’anno?

Che la bellezza è un concetto non solo estetico ma etico. C’è chi dice che il nome Calabria derivi dal greco “kalon brion”, che significa “faccio sorgere il bello”. Ma sappiamo che per i Greci il bello e il bene erano concetti intrecciati, indivisibili, perché l’armonia delle forme si rifletteva nell’armonia di una società governata dalla giustizia, senza soprusi e prevaricazioni. Essere “testimoni di bellezza” vuol dire allora non limitarsi a “contemplare” un ideale di giustizia, ma contribuire a costruirlo con le proprie scelte e i propri comportamenti. La speranza è questo impegno, questa costruzione collettiva.

Lei è a Locri da giorni. Il 19 marzo arriva Mattarella per incontrare i familiari delle vittime. Come è l’atmosfera?

C’è una grande attesa. L’ultima visita di un presidente nella Locride risale a cinquant’anni fa, quando Giuseppe Saragat andò a San Luca per incontrare i famigliari di Corrado Alvaro, il grande scrittore. Ma la presenza di Sergio Mattarella assume per i famigliari delle vittime un significato particolare: nessuno meglio del Presidente – avendole vissute in prima persona attraverso la perdita tragica del fratello – può capire le loro ferite e le loro aspettative. È importante che il 21 marzo sia diventato con voto unanime “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, ma questo non deve far dimenticare che nel 70% dei casi i famigliari delle vittime non hanno saputo la verità né ricevuto giustizia. Come che al riconoscimento morale deve corrisponderne uno materiale e giuridico, sulla base di quelle direttive che, anche a livello europeo, garantiscono norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime e dei loro famigliari.

«I beni sequestrati valgono 25 miliardi, bisogna approvare la riforma» ha detto Rosy Bindi. Ma intanto questa nuova legge è ferma al Senato da mesi. Questo stallo che danni provoca all’Italia?

Un grave danno non solo economico, ma sociale e culturale. Quella che sancisce l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie – la legge 106, per la quale Libera indisse nel 1995 una petizione che raccolse oltre 1 milione di firme – è una norma di alta civiltà giuridica perché non solo ripara l’ingiustizia, ma prescrive che dall’ingiustizia riparata nasca una maggiore giustizia. Molti beni confiscati sono diventati veicoli straordinari di responsabilità e cura per il bene comune, nonché strumenti di lavoro, di dignità, di autonomia. E questo in territori anche molto difficili, storicamente soggetti al potere mafioso, alla corruzione e all’arretratezza culturale ed economica che ne derivano. Certo non è sempre stato così, a causa di lungaggini burocratiche o di miopia politica. Perciò ha ragione, Rosy Bindi: vanno approvate con urgenza tutte le riforme necessarie per risolvere quei nodi e colmare quei ritardi, perché quella dei beni di confiscati è una partita di civiltà che non possiamo permetterci di perdere.

Sono cambiati i mafiosi dagli anni 90 ad oggi?
Sono cambiati i mezzi e i metodi, ma non l’essenza delle mafie, che resta la sete di potere, di possesso e di ricchezza. I mafiosi hanno capito prima di molti altri le opportunità di arricchimento offerte dalla globalizzazione, i tanti varchi che si aprivano nella cosiddetta “economia di mercato”, basata sulla sola regola del profitto e sulla falsa idea che la crescita del profitto sarebbe andata a beneficio di tutti. Si è creata così una vasta zona grigia in cui oggi è sempre più difficile distinguere tra criminalità organizzata, criminalità politica e criminalità economica, come risulta anche da certe inchieste in cui i magistrati faticano a individuare la fattispecie del reato, potendo contare su strumenti giuridici istituiti prima ancora che quell’intreccio emergesse con forza. Tutto ciò ha potenziato le mafie, e al tempo stesso permesso loro di esercitare il potere senza ricorrere, salvo casi estremi, alla violenza esplicita. Quelle attuali sono mafie imprenditrici nel senso più ampio del termine. Hanno una “visione” del mercato, una capacità di stabilire relazioni con imprenditori, professionisti, operatori del mondo finanziario, di diversificare gli affari e perseguirli anche senza un diretto controllo del territorio. Sono mafie “normalizzate”, non più un “mondo a parte” ma parte di questo mondo. Col grave rischio di credere che, siccome è diminuito il tasso di violenza sanguinaria, siano più deboli del passato. Per i morti ammazzati che diminuiscono, cresce infatti il numero dei “morti vivi”, delle persone a cui le mafie tolgono speranza, dignità e libertà.

Qual è stato il momento più difficile in tutti questi anni di lotta alle mafie?
Non parlerei tanto di “momenti difficili” quanto del rischio costante di ritenere le mafie una questione esclusivamente criminale, da delegare all’azione della magistratura e delle forze di polizia. Se così fosse, non si capirebbe il perché della loro presenza secolare nel nostro Paese. La verità è che le mafie sono un fatto criminale, ma prima di tutto sociale, culturale e politico. Un fatto che affonda le radici in quella politica che non serve il bene comune, in quella legalità che è strumento di potere e non di giustizia, e in quella mentalità che pensa solo ai propri interessi e che quando vede qualcosa che non va si lamenta ma non fa nulla per farla andare. Cioè un fenomeno prodotto dalla corruzione morale e materiale, che resta il principale problema del nostro Paese. Per uscirne occorre una politica pulita e lungimirante, occorrono leggi che non servano gli interessi di uno o di pochi, ma occorre innanzitutto una rivoluzione culturale, un risveglio delle coscienze. Per questo Libera punta da sempre sulla scuola, sui percorsi educativi. È la conoscenza, la via maestra al cambiamento.
E il suo momento più difficile?

C’è una difficoltà costante che viene dalla coscienza dei limiti. Ti rendi conto spesso di non essere in grado di dare risposte, di non poter fare quello che desideri o di poterlo fare solo in parte. È anche vero, però, che questa consapevolezza è preziosa perché ti aiuta a crescere, a essere umile, a non sentirti mai “arrivato”. Poi ci sono momenti oggettivamente difficili, come è stato quello della condanna a morte di Totò Riina tre anni fa e il conseguente cambiamento del regime di sicurezza a cui sono sottoposto. Ma sono fatti, questi, che in una certa misura metti in conto, mentre è più difficile accettare il fango, le calunnie, le manipolazioni che arrivano da ambiti da cui non te lo aspetteresti. Un fango che non colpisce tanto me, che sono una piccola persona, ma la dignità di migliaia di persone che s’impegnano in Libera e con Libera, e che attraverso Libera – penso soprattutto ai giovani – hanno trovato un mezzo per mettersi in gioco per la giustizia e la democrazia di questo Paese. Quel fango è più pesante delle minacce perché colpisce il loro impegno e le loro speranze di cambiamento.

La parola “antimafia” nel 2017 che significato ha?

“Antimafia” è una parola che necessita innanzitutto di una profonda riflessione, se non di una bonifica. Una parola che in questi anni è stata il paravento di protagonismi, persino di forme di illegalità e di malaffare. Essere contro le mafie dovrebbe essere un fatto di coscienza, non una carta d’identità da esibire quando fa comodo. Sospendiamo la parola antimafia e smaschereremo chi ci ha costruito sopra false reputazioni. Ma lo stesso vale per altre parole, ad esempio “legalità”. Si è fatto della legalità un idolo. Tanti invocano la legalità, ma a troppi piace solo quella legalità che coincide con i loro interessi. Lo stesso vale per “società civile”, che è una parola già vuota di senso, perché una società per definizione è formata da cittadini e dunque “civile”. Se proprio vogliamo dare un attributo alla parola società, che sia “responsabile”. È dal grado di responsabilità che si misura il senso di cittadinanza. Delle parole importanti non bisogna abusare. Quando c’è un abuso, significa che dietro la parola c’è il vuoto. Non si è mai parlato tanto di legalità come in questi vent’anni, e mai il livello di illegalità è tanto cresciuto.

 

Il Parco è salvo

La Regione non tocca i confini

colli_phk


Sorpresa: l’area protetta aumenta. Lunedì delibera in giunta, sconfitto Berlato

(Filippo Tosatto)
Pericolo scampato. Il Parco dei Colli euganei non diventerà una terra di nessuno alla mercé delle doppiette e delle colate di cemento: nel complesso, il suo patrimonio ambientale protetto sarà salvaguardato, anzi lievemente incrementato, mentre il divieto di caccia ai cinghiali (e alle altre specie infestanti) resterà inalterato, salvo le procedure di abbattimento selettivo autorizzate. È quanto stabilisce la nuova delibera regionale messa a punto dalla Giunta di Luca Zaia su proposta dell’assessore all’Ambiente Cristiano Corazzari, incaricato dal governatore di raccogliere i pareri dei quindici sindaci il cui territorio ricade del tutto o in parte nel perimetro vincolato. Una concertazione avviata dopo le proteste suscitate dal controverso progetto di legge di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d’Italia-An e patrono delle associazioni venatorie, favorevole a “riclassificare” il parco riducendo del 50% la fascia di protezione così da consentire ai residenti l’esercizio della caccia «alle specie selvatiche dannose alle colture e all’incolumità della popolazione». Una sorta di incubo per i difensori dell’ecosistema e per i municipi, la cui volontà è stata infine recepita da Palazzo Balbi, che la tradurrà in un atto esecutivo nella prossima seduta. Nel dettaglio, le proposte “cartografiche” giunte dalle amministrazioni locali sono così riassumibili: Arquà Petrarca, Baone, Rovolon, Torreglia, Battaglia Terme, Monselice, Montegrotto, Este, Abano e Cervarese Santa Croce, hanno confermato la volontà di mantenere l’attuale perimetro; Lozzo Atestino e Cinto Euganeo, hanno chiesto un leggero ampliamento dei confini del parco rispetto ai vincoli attuali; Vo’, Teolo e Galzignano Terme sollecitano invece una riduzione dell’area sottoposta al Piano ambientale; di modesta entità per quanto riguarda i primi, rilevante, rispetto all’estensione del territorio comunale, da parte dell’ultimo. Tali ipotesi sono state valutate dal gruppo di lavoro Corazzari trasponendo le richieste in un unica planimetria con successive sovrapposizioni cartografiche attraverso le mappe dei vincoli idrogeologici, della vegetazione e dell’habitat prioritari, dei vincoli paesaggistici e di quelli derivanti dal Piano ambientale. A ciò è seguito un ulteriore trattativa con le amministrazioni: il binomio Teolo-Cervarese e la triade Galzignano-Battaglia-Monselice sono state invitate al confronto reciproco nell’obiettivo di garantire continuità alle potenziali aree contigue, e tale prassi ha consentito di “omogeneizzare” le rispettive perimetrazioni. Analoghi ritocchi sono stati concordati con Vo’, Cinto e Lozzo Morale della favola? Oggi il perimetro del Parco Colli, soggetto cioè a tutela integrale, si estende su 18.694 ettari mentre le aree contigue ammontano a 397 ettari. Ebbene, il progetto conclusivo che accompagna la relazione dell’assessore alla Giunta prevede la riduzione di 307 ettari della superficie del parco – ovvero le porzioni urbanizzate del territorio di Vo’, Teolo e Galzignano dove i sindaci, in assenza patrimoni naturali da salvaguardare, chiedono freni meno stringenti – ed il contemporaneo aumento di 397 delle aree contigue, così da innalzare la superficie complessiva sottoposta a vincolo a 18.784 ettari. E il fatidico spauracchio-cinghiali? Al di là della propaganda strumentale, la loro proliferazione incontrollata (causata, peraltro, dagli stessi cacciatori che ne hanno attuato il ripopolamento abusivo una ventina d’anni fa) oltre a provocare frequenti incidenti stradali, crea danni devastanti non soltanto all’agricoltura ma alle stesse bellezze naturali. Per frenarne il dilagare (sono stimati oltre 10 mila capi con crescita esponenziale annua del 220%) polizia provinciale ed Ente Parco hanno varato un piano di cattura che consente una media mensile di abbattimenti pari ad un centinaio di esemplari; tale procedura sarà intensificata, con l’erogazione di maggiori risorse da parte della Regione. Tant’è. Questa è la delibera che sarà sottoposta al territorio e quindi al Consiglio regionale dove, c’è da scommetterci, l’irriducibile Berlato non tarderà ad imbracciare la doppietta.


«La vera insidia oggi è data dalla legge 143 che disciplina l’ente»
Sandon e Miazzi avvertono: a rischio è il Piano ambientale che regola tutte le attività nell’area dei Colli Euganei

(Nicola Cesaro)
Ad ambientalisti e comitati dei Colli Euganei l’attacco di Sergio Berlato al Parco Colli non faceva più tanta paura. Troppo estesa e solida la rivolta dei residenti, delle associazioni, dei naturalisti. Troppo ferma la posizione contraria dei sindaci euganei, o almeno della maggioranza (12 su 15, ad esser precisi). Troppo lontana la posizione stessa della giunta di Luca Zaia, che attraverso l’assessore Cristiano Corazzari ha più volte preso le distanze dal disegno del consigliere-cacciatore Berlato. Per chi ha cuore il futuro del Parco Colli, la sua autonomia e la sua autorevolezza, la sua capacità di indirizzare le scelte di un territorio e il suo peso politico in Veneto, tuttavia, non è ancora il momento di tirare un respiro di sollievo. A far paura, oggi, è il disegno di legge di 143, di iniziativa della giunta regionale, intitolato «Disciplina e valorizzazione della rete ecologica regionale e delle aree naturali protette». E’ stato approvato in giunta nel marzo 2016, presentato il 6 maggio al consiglio e ne è già terminata la discussione generale in Commissione. Il ddl 143, tra le varie cose, sostituisce la legge regionale 16 del 1984, quella che istituisce parchi e riserve naturali regionali, e abroga una sfilza di articoli delle singole leggi istitutive di ciascun parco naturale regionale, eliminando di fatto i vigenti piani ambientali. Compreso quello del Parco Colli. «Stiamo parlando di una legge che per impostazione non è tanto diversa dall’emendamento proposto da Berlato» ha sottolineato Gianni Sandon, ambientalista di riferimento negli Euganei «E’ più raffinato, prevede un percorso in cui almeno è consentito il confronto, ma è altrettanto subdolo. Di fatto il ddl 143 si mangia la legge quadro a cui facevamo riferimento e si porta via anche metà della nostra legge istitutiva. Il risultato? Ci viene chiesto di abbandonare il Piano ambientale e di dedicarci solamente alla natura. Paesaggio, ambiente e territorio, che erano gli altri capisaldi su cui doveva strutturarsi l’attività del Parco, vengono meno. Cosa c’è di differente tra la Regione che ci dice “ora occupatevi solo di natura” e Berlato che stringe i confini del Parco e riduce il territorio protetto ai soli cucuzzoli dei colli?». E ancora: «Questa legge di fatto spezza un cammino lineare che dagli anni ’60 – ricordo che una prima idea di Parco era quella del consorzio di Comuni volontari del 1968 – a oggi ha visto una sempre più convinta affermazione del valore e del potere del Parco. Buttano fuori dalla finestra la legge istitutiva e il Piano ambientale e nemmeno toccano la governance dell’ente, che è uno degli aspetti che invece andrebbe riformato in fretta. Sono gli stessi sindaci a dire che il Parco in mano ai sindaci è stato fallimentare, eppure nel ddl 143 li ritroviamo quasi nella stessa posizione. Rispetto al primo disegno di legge del 2012 è sparita anche la presenza di cinque componenti esterni in consiglio, rappresentanti delle associazione di categoria, degli ambientalisti, dei gruppi culturali». Il timore è condiviso da Francesco Miazzi, altro ambientalista di spicco dei Colli: «Il ddl 143 è il vero banco di prova per il futuro della nostra area e del Parco. Questa legge potrebbe mortificare le vere potenzialità del nostro territorio, trasformando il Parco in un ente dedito esclusivamente a competenze naturalistiche. Un vero e proprio attacco al Piano ambientale, ben più grave di quello sferrato da Berlato».